Questi appunti sono stati scritti durante il seminario tenuto dal prof. Roberto Louvin dell’Università di Calabria il 1°aprile 2014 presso la sezione di diritto costituzionale del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova dal titolo “La ri emersione dei Beni Comuni nel costituzionalismo contemporaneo”.

I beni comuni sono i beni comuni dell’uomo,indispensabili e necessari per la sopravvivenza del genere umano e generalmente esclusi da un possesso esclusivo di un singolo: possiamo far rientrare nella categoria Beni Comuni la terra, l’acqua, la biodiversità, la scienza e la conoscenza, il paesaggio. Sono beni attorno ai quali ruotano legami di valorizzazione, conservazione (responsabilità per il futuro e le generazioni future) e solidarietà. Il concetto di bene comune è assimilabile ad una istituzione sociale dinamica in cui diversi soggetti e comunità interagiscono e fanno rete nella gestione di questi beni.

A partire dal Medioevo e dal pensiero di Tomaso incomincia a delinearsi la contrapposizione tra beni individuali e beni comuni. Il fenomeno è più diffuso nel nord Europa tanto che l’Inghilterra si dotò di una legislazione a tutela di boschi e foreste con la Charter of Forest già nel 1217. Per tutto il medioevo e fino agli albori della civiltà moderna il bene comune, governato dalle regole consuetudinarie costruitesi nei secoli, avrà il suo periodo d’oro.

Il declino dei Beni Comuni coincide invece con l’avvento dell’età industriale e la definitiva supremazia della Proprietà Privata individualistica di ispirazione lockiana. L’assetto comunitaristico della proprietà incomicia ad essere demolito con le prime costituzioni moderne, a partire dalla Costituzione della Virginia del 1776 e poi con il Code Civil napoleonico del 1804 (che ispira il nostro attuale Codice civile del 1942). Solo con la Costituzione di Weimar negli anni ’20 dello scorso secolo si ricomincerà a dare spazio alla proprietà come interesse collettivo. La nostra Costituzione del 1948, pur ispirandosi alla costituzione di Weimar, manca del riferimento alla proprietà collettiva. L’art. 42 definisce la proprietà come pubblica o privata, tralasciando la proprietà collettiva (tertium non datur!) e tralasciando quindi il tema della “proprietà come funzione sociale accessibile a tutti”. L’art. 43 Cost. da spazio per una lettura elastica del suo dettato e può far intravedere, per gli interpreti più attenti, qualche spiraglio per la rinascita dei beni comuni (Art. 43: A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese,che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale): qui infatti si parla della possibilità di esproprio a beneficio di comunità di lavoratori o di utenza. Tuttavia la riemersione dei beni comuni non avrà gioco facile perchè questo tema sconta un grosso problema da un punto di vista culturale e il problema consiste nel sillogismo “libertà = proprietà”. Questo tipo di discorso andrebbe smascherato una volta per tutte. Già Henry Summer Maine nella seconda metà dell’ottocento si interessò della demitizzazione della visione monistica della proprietà affermando che la proprietà era nata originariamente come proprietà collettiva. Il premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom ha individuato i principi di regolazione per il funzionamento e la gestione comunitaria dei Beni Comuni elencandoli poi nella pubblicazione “Governare i Beni comuni”del 1990: prendendo ad esempio gli esempi di gestione di beni comuni nel mondo la economista morta nel 2012 ha individuato otto regole comuni a tutte queste esperienze e valevoli in generale in cui emerge la reale possibilità di far ri emergere i beni comuni nel mondo contemporaneo. Queste regole definiscono: la chiarezza con cui sono definiti i confini; la proporzionalità costi-benefici; la partecipazione alle decisioni da parte di tutti i soggetti senza che qualcuno possa prevalere sugli altri; la previsione di una attività di monitoraggio della risorsa comune e delle persone che partecipano alla sua gestione; la presenza di sanzioni “a salire”; le regole di risoluzione dei conflitti tra gli attori coinvolti; la garanzia costituzionale che garantisce alle persone il diritto di organizzarsi liberamente e infine la presenza di una pluralità di livelli in cui sono organizzate le modalità di governance della risorsa in comune con l’obiettivo comune di preservare il bene comune per le generazioni future.

In Italia il 10% del territorio è un bene comune della terra, gestito da raggruppamenti di persone o comunità: si tratta di un fenomeno diffuso soprattutto nel nord Italia e più precisamente nell’arco alpino (Valle d’Aosta, Ampezzo, Val di Fiemme, Carso) e che oggi si trova a forte rischio per i tentativi di privatizzazione di questi territori. Mantenere questi terreni come pubblici ha una valenza fondamentale, visti anche i principi elencati dalla Ostrom: il territorio non può essere visto solo nella sua accezione produttiva o remunerativa. Questa “banalizzazione” del concetto di cosa pubblica va respinto con ogni forza per trasmettere alle generazioni future un patrimonio inestimabile. Ogni tentativo di distrarre questo patrimonio dalla disponibilità per il futuro dovrebbe essere attentamente vagliato; sarebbe auspicabile, quindi, come sta succedendo in Sud America, l’introduzione della figura del Difensore delle Generazioni Future, figura a cui spetterebbe l’analisi costi-benefici derivante da operazioni speculative che si vogliano effettuare sui Beni Comuni.

E’ proprio dal Sud America (tralasciando i classici esempi di proprietà collettive di Urss e Repubblica popolare cinese-la proprietà collettiva delle masse lavoratrici) al centro di un interessante processo di costituzionalismo fin dagli anni ’80, che arrivano le esperienze più interessanti per una ri emersione dei ben comuni. Pur trattandosi di costituzioni manifesto e programmatiche, declinate in articoli molto lunghi e spesso non applicati, il Sud America ci offre numerosi spunti partendo dall’esperienza del riconoscimento dei diritti inalienabili delle minoranze e dei nativi: La repubblica dell’Equador, ad esempio, riconosce per la prima volta in Costituzione il valore della biodiversità (art. 57 comma 8 e art. 58) tra i diritti riconosciuti agli indios. Il Brasile, all’art. 231 della Costituzione del 1988 riconosce “la indisponibilità e la inalienabilità delle terre abitate dagli indios”; riconosce inoltre “la nullità di tutti gli atti di vendita o sfruttamento dei terreni la cui proprietà collettiva è garantita in eterno agli indios”. Infine, la Costituzione della Bolivia riconosce all’art. 394.III della Costituzione del 2008 “la proprietà comunitaria o collettiva” descrivendola come “proprietà indivisibile, insequestrabile, imprescrittibile, inalienabile e irreversibile”, rendendo così complementari i diritti collettivi e quelli individuali e rendendo compatibile l’unità territoriale con le identità delle popolazioni.

Tutti i casi riportati descrivono una concezione post-moderna della Proprietà Privata strutturata come gestione concertata di beni e risorse comuni di fruizione collettiva.

Letture consigliate:

-R. Dworkin I diritti presi sul serio, Milano, Il Mulino, 1982.

-Stefano Rodotà Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Bologna, il Mulino, 1981; 1990

-Paolo Grossi Un altro modo di possedere, Milano, Giuffrè,1977

-Christian Felber L’economia del Bene Comune, Tecniche Nuove, 2012

-E. Ostrom (1990), Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge, Cambridge University Press.

In italiano: E. Ostrom Governare i Beni Comuni, Marsilio, Venezia, 2006