Manifesto 

E’ giunto il momento di esprimere in modo condiviso quali sono i nostri obiettivi, in cosa crediamo, con quali mezzi e in quale direzione intenderemo promuovere le nostre iniziative.

Introduzione:

«Nella millenaria civiltà della terra, il contadino guardando le stelle, poteva vedere Iddio, perché la terra, l’aria, l’acqua, esprimono in continuità uno slancio vitale… Per questo il mondo moderno, avendo rinchiuso l’uomo negli uffici, nelle fabbriche, vivendo nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motori e il disordinato intrecciarsi dei veicoli, rassomiglia un poco ad una vasta, dinamica, assordante, ostile prigione dalla quale bisognerà, presto o tardi, evadere…»  Adriano Olivetti – Città dell’uomo.

Introducendo questo documento con il pensiero di uno dei più grandi imprenditori della storia industriale italiana, occorre ricordare come sia possibile, e anzi auspicabile, conciliare l’esigenza delle attività umane con il rispetto del territorio, dell’ambiente e delle entità culturali che lo identificano.  Lo stesso Olivetti individuava la crisi della società contemporanea dovuta alla  dissociazione tra etica e cultura e tra cultura e tecnica, avanzando la necessità di costituire comunità d’interesse, morale e materiale, fra gli uomini, la loro vita sociale ed economica, in un convergente spazio determinato dalla natura e dalla storia.

Il nascente Comitato di Amici di Pontecarrega, trae la sua origine dall’iniziativa di alcuni liberi cittadini desiderosi di reagire al crescente degrado del territorio, con particolare riguardo alle approvazioni da parte delle amministrazione di progetti di viabilità e di urbanizzazione e cementificazione della vallata, che si ritengono lesivi nei confronti delle identità culturali, paesaggistiche e dell’ambiente.

Siamo consapevoli che tutto questo non è solo il frutto di una cattiva gestione del territorio che ha caratterizzato questa o quella particolare amministrazione, ma del pensiero di fondo che anima tali iniziative, una logica che ha come estrema conseguenza la scarsa sensibilità del rispetto dei valori ambientali e di identità, troppo spesso svenduti in cambio di un immediato riscontro, sia esso economico o di consenso.

La riqualificazione passa per una idea di futuro ma quale..

Occorre chiedersi quali siano le logiche che hanno portato a queste scelte e in tal senso la ricerca non sarà condotta genericamente, ma altresì avanzata con metodo, individuando e ricercando di volta in volta le forze e le competenze necessarie per raggiungere  efficacemente tale obbiettivo.

Nello specifico il progetto di viabilità presentato dall’amministrazione sottende una idea di futuro che riteniamo superata e oggi quanto mai inaccettabile.

Il progetto è presentato in via preliminare, ma sottointende la possibilità di poter abbattere un “bene non rinnovabile” di storia,di identità culturale e popolare quale è Ponte Carrega, per costruire al suo posto un altro ponte moderno e carrabile. Noi ci stiamo chiedendo quale sia l’idea di fondo che anima questo aberrante progetto. Secondo noi la colpa è  frutto di un pensiero di sviluppo ormai vecchio e superato, vetusto,rivendicato da una amministrazione arida di idee e di proposte per il futuro. E’ quasi un ritorno alle idee futuriste, dove idealmente si vorrebbero “bruciare i musei e le biblioteche” in modo da non avere più rapporti con il passato per concentrarsi sul dinamico presente. In questo caso si sacrifica il ponte e più genericamente parte della vallata, restringendo l’argine della sponda destra, l’unica rimasta naturalizzata, a favore di una sede protetta per il bus e per facilitare l’accesso veicolare ai centri commerciali.

Una logica fuorviante, che riconosce una incondizionata supremazia della tecnica, e la possibilità di restringere i torrenti spesso a favore della speculazione fondiaria.

La valle non come luogo ma come servizio, il fiume non come entità ma come ostacolo.

Una idea di moderno superata dai fatti, in un momento di crisi in cui è messa in discussione lo stesso concetto di crescita, dove le risorse non rinnovabili dovrebbero essere preservate più che consumate anche per favorire una possibilità di futuro alle prossime generazioni.

L’impossibilità della tecnica a garantire la messa in sicurezza dei fiumi, significa riconoscere il primato della forza della natura alla quale l’uomo può solo porre metodi di mitigazione. Dunque il fiume visto come entità e la valle come luogo, significa anche delineare un modo di essere e di stare, una identità di luogo, consapevole dei rischi, ma anche dei pregi, di abitare in questo contesto.

Pontecarrega è stato costruito dagli abitanti di Montesignano, dai nostri nonni forse, da coloro che abitavano il territorio che ci hanno lasciato in eredità, utilizzando una ingegneria semplice, lontana dagli attuali modelli matematici e dall’uso di sofisticati calcolatori: con le sue sedici arcate delineava dei limiti entro l’uomo aveva deciso di stare.

Intorno ad esso intere generazioni hanno prosperato e vissuto, e anche combattuto, in nome di una comunità viva, che ha saputo tramandare, fino ad oggi, storia, lavoro e poesia; “I torvi picchi dei Forti in corona erano giganti che assistevano alla nascita d’una rosa” così il poeta Camillo Sbarbaro descriveva Pontecarrega al tramonto, negli anni ‘20.

Per questo il ponte è diventato nel tempo un simbolo di identificazione che circoscrive e caratterizza un territorio. Per questo è importante che rimanga li, per questo è importante preservarlo e a questo la tecnica moderna deve asservirsi.

Cosa intendiamo fare…

Riteniamo che la riqualificazione della nostra vallata debba tenere conto di un modello alternativo di città industriale, un modello basato su un sistema di produzione e di vendita che non avvilisca le possibilità di aggregazione e socializzazione tra le persone.

Quindi la periferia come possibilità per uno slancio vitale, luogo dove la città s’incontra senza conflitto con la natura, il contorno dove il lavoro sia possibile valorizzando le produzioni locali a basso impatto ambientale, tanto auspicate dalle esigenze della emergente green economy.

E’ nostra intenzione divulgare e promuovere questa possibilità portando a conoscenza i modelli già sperimentati con successo in altre città italiane ed europee.

I progetti in corso d’opera, approvati dalle passate e recenti amministrazioni, diversamente da queste tendenze emergenti che non sono altro che il FUTURO, prevedono enormi edifici ed ulteriori investimenti rivolti verso opere di cementificazione e impermeabilizzazione del suolo, storicamente le principali cause dei dissesti idrogeologici. La nostra valle già ampiamente stuprata e violentata dalla cementificazione dello scorso secolo continuerà ad essere oggetto di ulteriore cementificazione secondo i canoni tipici di un modello industriale oramai superato o in fase di superamento. L’abbattimento di vecchi insediamenti industriali non dovrebbe dare luogo al sorgere di muovi edifici di maggiore dimensione rispetto a quelli abbattuti anche in considerazione della forte diminuzione della popolazione prevista nei prossimi anni. Non riteniamo corretto l’approccio per cui le opere di mitigazione dei torrenti siano pagate a scorporo concedendo agli stessi autori opere di sbancamento e sottrazione di zone verdi senza nemmeno concedere alla vicina popolazione altre opere di compensazione. Se è necessario costruire occorre individuare e imporre tecniche innovative di costruzione tendenti a minimizzare l’impatto ambientale degli edifici, non solo energeticamente, ma anche in considerazione al loro rapporto con l’ambiente circostante, ovvero con il paesaggio. Dall’altra parte vediamo ancora che i progetti di viabilità della vallata continuano a privilegiare il trasporto privato, con percorsi preferenziali e accessi ai centri commerciali che sono visti come unici centri di attrazione, contribuendo pertanto a svuotare le strade e i quartieri dei loro negozi e del tessuto sociale che ruota intorno ad essi per delocalizzare la popolazione in oasi artificiali slegate dal contesto sociale ed urbano in cui sono artificiosamente inserite. Si promuovono nuove articolate rotonde, si sottrae spazio ai torrenti per riservare sedi protette agli autobus, non tenendo conto che esistono esperienze differenti come a Losanna, Strasburgo, Zurigo, dove il trasporto pubblico non avviene necessariamente in questo modo ma diversamente con una idea d’integrazione al tessuto urbano colto come occasione di rivitalizzazione dei quartieri periferici con esperienze che hanno visto migliorare anche l’assetto economico delle aziende di trasporto pubblico. Non è una questione di costi, dato che spesso la soluzione più semplice è anche quella più economica, ma è altresì una questione di mediazione con la comunità che presto o tardi le amministrazioni dovranno affrontare dal momento che la stessa comunità europea individua in questo percorso il nuovo concetto di mobilità.

Per le situazioni esistenti occorrerà promuovere iniziative miglioramento del quartiere, anche con piccoli interventi, non solo strutturali, come già avvenuto con successo in alcuni insediamenti di Berlino o di altre città, promuovendo iniziative culturali di rilevo di tipo permanente. In tale direzione intendiamo coordinare e promuovere il coinvolgimento delle scuole, delle università, dei centri sociali, ma anche semplicemente dei cittadini appassionati. Riteniamo che esista una forte esigenza della popolazione a esprimersi in esperienze condivise, non solo nelle tradizionali piazze, ma anche sperimentando nuove forme di aggregazione quali gli orti urbani, teatri all’aperto, autogestione del verde e della manutenzione dei beni comuni; in questo senso sono un esempio i volenterosi genitori che recentemente hanno aiutato la tinteggiatura delle aule delle scuole, o contribuito alla loro pulizia.

Tutto questo dovrà avvenire stimolando e coinvolgendo le istituzioni preposte individuando gli strumenti più idonei e se il caso modificare le normative che ostacolano tali iniziative (a riguardo siamo perplessi di fronte alla normativa regionale che deroga alla normativa nazionale per la costruzione nelle vicinanze dei corsi d’acqua portando il limite a soli 3 metri dai corsi d’acqua contro i 10 metri della legge nazionale!).

La consapevolezza di stare un una valle ad alto rischio idrogeologico, anche sulla scorta degli ultimi eventi alluvionali, ci spinge a immaginare metodi di adattamento, di auto protezione, più efficaci e meno invasivi, cercando di evitare continui stati d’allerta che alla lunga potrebbero assuefare la popolazione e portare alla sottovalutazione del rischio.

Riteniamo che per risolvere il così detto “problema dell’ultimo miglio”, occorrerà coinvolgere la popolazione promuovendo la conoscenza e le dinamiche a cui il rischio è determinato.

Schieramento politico

Non prediligiamo nessun schieramento politico particolare: vogliamo essere trattati e rispettati come cittadini. Il nostro interesse è il nostro territorio perché noi siamo il territorio: lo viviamo e lo vogliamo rendere nostro annullando quel gap tra periferia e città che prospera in questo clima di arretratezza culturale in cui siamo immersi. Non ci sentiamo e non vogliamo essere cittadini di “serie B”, ma popolo attivo che rivendica il diritto di poter vivere in armonia con il proprio territorio.

Sia chiaro però, a tutti, che la nostra battaglia non è solo una battaglia per un bene cui siamo affezionati: non ci battiamo solo per un bene “non rinnovabile” per una questione prettamente romantica: la nostra vuole essere una battaglia civile contro il degrado e l’oblio di porzioni di territorio dimenticate e lasciate sole a se stesse, ma pur sempre degne e dignitose di poter rivendicare le proprie radici e soprattutto di poterle conservare. Il nostro territorio è stato già ampiamente stuprato e violentato da decenni di speculazione: stanchi di vedere cemento su cemento senza possibilità di una crescita condivisa e partecipata da parte della cittadinanza. Stanchi di dover assistere passivamente a tutto questo, stanchi di dover rivedere una storia già vissuta: pochi se lo ricordano, ma parte di questo quartiere, di Montesignano e di Piazzale Adriatico è nato dalla deportazione dei figli di Via Madre di Dio. Dalla notte al mattino deportati in un quartiere dormitorio per fare spazio alla “riqualificazione” urbana del centro storico: il risultato fu un genocidio culturale che distrusse parte di Genova e la vita di molte persone che furono costrette ad abbandonare la propria dignità e la propria identità, la propria vita in nome di un intervento di urbanizzazione e di cementificazione rappresentato dallo sbancamento della collina dove sorgeva Via Madre di Dio. Consci e memori di questo passato, di questo ricordo ancora così vivo nel quartiere, la nostra popolazione non si farà spogliare un’altra volta della sua identità e della sua storia. Abbiamo bisogno di simboli, di un qualcosa che ci tenga legati al territorio e alla sua storia; abbiamo bisogno di qualcosa di più di un centro commerciale o di una strada più larga. Il nostro cuore e la nostra anima hanno bisogno di qualcosa che vada al di là di tutto questo, di qualcosa che ci ricordi l’infanzia, i nostri ricordi; la nonna che ci accompagnava a scuola al di là del ponte; la corsa verso il tram o l’autobus in un giorno di pioggia, il ritorno verso casa in un giorno di festa, dove chiudendo gli occhi sul ponte per qualche secondo,lontano dal traffico e dallo smog potevi sentirti già a casa. O il ricordo dei nonni partiti per la guerra che salutavano la madonnina sul ponte e non sapevano se l’avrebbero più rivista. O chi tornato sano e salvo doveva passare il ponte e la prima cosa che vedeva era il suo bel vecchio ponte che dopo tanto pericolo e tante peripezie sembrava accompagnarlo dolcemente sulle soglie di una casa finalmente ritrovata.

La storia è un insegnamento per sempre, e una popolazione che è già stata spogliata della sua identità più di una volta non riuscirà a sopportarne un’altra.

La nostra politica è una operazione di coerenza ed onestà intellettuale e di risveglio delle coscienze sopite: è una operazione di verità. Dire che il nostro antico ponte non sia a norma di legge è non solo lapalissiano, ma anche e soprattutto un’affermazione che nasconde grandi rischi e pericoli per la società civile.

Ci spieghiamo meglio: è pacifico che un ponte del 1788 non possa essere conforme alla normativa vigente in materia. Ma allo stesso modo, con lo stesso criterio, si potrebbe affermare che anche il Ponte Vecchio di Firenze potrebbe non essere a norma, che i palazzi di Via Garibaldi o dei vicoli che sono senza fondamenta potrebbero essere reputati non a norma. Suffragare questo ragionamento significherebbe dare alla tecnica e al progresso un ruolo diverso da quello che dovrebbe avere e contribuirebbe alla schizofrenia tra pensiero scientifico e umanistico. Dare alla scienza un ruolo così importante e decisivo può, in condizioni di non assoluta trasparenza e certezza, essere un indice di grave patologia per la nostra società. Se male utilizzata, se usata come manganello delle coscienze, la scienza può risultare un avversario temibile e imbattibile. Ma il ruolo della scienza è davvero questo? Deve essere utilizzata per scardinare la coscienza e persuadere l’opinione dell’uomo fino a far credere che ogni cosa che afferma è legge? Oppure vogliamo dare alla scienza un ruolo più “umano”, più umanista? (…Basterebbe chiedere a certi uomini di utilizzarla in maniera più vicina agli interessi e ai bisogni dell’uomo per far si che la scienza risponda? )

La tecnica in una epoca lontana dalla “caccia alle streghe” deve essere a servizio della collettività e deve essere finalizzata a migliorare la vita della società e non meramente a rimuovere gli ostacoli che le si presentano davanti. La scienza e la tecnica devono servire a trovare soluzioni senza creare disagio, ma al contrario contribuendo a diradarlo.

Distruggendo Via Madre di Dio, al di là dell’aspetto speculativo, i nostri amministratori del passato, così come quelli di oggi, pensavano forse di eliminare un ostacolo, rappresentato dal disagio di una zona degradata, ma non sapevano che lo avrebbero semplicemente delocalizzato e traslato in un’altra parte della città. La tecnica, cercando di risolvere il problema, pensò di superarlo, distruggendolo senza affrontarlo e diede così forma a due nuovi tipi di disagio: da una parte, creando un nuovo quartiere ghetto, dall’altra spogliando la città di un pezzo di vita pulsante del proprio tessuto urbano portando invece il deserto e nuovo degrado nel bel mezzo del cuore ferito di Genova.

Non ripeteremo lo stesso errore; non assisteremo impassibili all’abbattimento, una seconda volta, di un’altra Madre di Dio perché non vogliamo più che capiti, in nessun luogo, un’altra Madre di Dio.

Salviamo Pontecarrega, salviamo la nostra identità, riprendiamoci il nostro futuro!

Non vogliamo un’altra Madre di Dio           

LOGODocumento condiviso