Archive for aprile 2014

Quanta aria pulisce il mio albero

Pubblichiamo stralcio dell’articolo di ANTONIO CIANCIULLO pubblicato su repubblica il 25 aprile scorso e disponibile anche su Triskel 182, e intanto ci chiediamo… ma per la “riqualificazione dell’area ex-Italcementi, nuovo slogan pubblicato su Repubblica – “è un mostro ma porta lavoro” – per il quale si è costruito tre volte sul costruito (agenda 21?) oltre ad aver sbancato una collina per farci posteggi e rampe veicolari, quanti alberi ad alto e medio fusto sono stati abbattuti e quanti saranno rimpiazzati?

Prima del loro abbattimento li abbiamo censiti, al termine dei lavori faremo un bilancio. Vi invitiamo a scriverci per indicare la tua stima di previsione. 

A chi indovina la previsione sarà consegnato un attestato simbolico di “Azzecca Albero di Ponte Carrega

Link all’articolo

Quanta aria

Pubblichiamo anche stralcio della lettera Confesercenti riguardante l’articolo di Repubblica “E’ un mostro ma porta lavoro” uscito su repubblica il 22 aprile scorso
Vedi l’articolo

Vedi la risposta di Confesercenti

Per completezza pubblichiamo anche integralmente la nostra memoria che avevamo inviato alla giornalista DONATELLA ALFONSO come corollario dell’intervista.

……

Considerazioni sugli interventi di riqualificazione dell’area Ex-Italcementi dell’Associazione Amici di Ponte Carrega

In occasione dell’inaugurazione della nuova piazza intorno al municipio di Molassana non possiamo fare a meno di confrontare questo avvenimento con altri interventi di riqualificazione della Val Bisagno che secondo noi sono molto meno felici e impattanti anche sotto il profilo della salute sociale e della socialità fra le persone.  

Nel caso dell’area ex-italcementi non possiamo far altro che constatare che in cambio di un intervento così impattante il quartiere non ha ricevuto nulla , al di la dei lavori di messa in sicurezza del torrente Mermi, peraltro assolutamente necessari anche per i proponenti.

Il nostro punto di vista su questo intervento rimane quello che abbiamo sempre sostenuto, ovvero che in questo luogo si è costruito tre volte rispetto al costruito, e che per questo intervento non sono stati svolti percorsi di partecipazione della cittadinanza, tanto meno di condivisione del progetto. Qualunque siano stati i processi di approvazione del progetto, di cui non mettiamo in dubbio la legittimità, in assenza di un’autorità garante al di sopra delle parti che sia effettivamente in grado di garantire una corretta comunicazione e una efficace condivisione dei progetti da parte della cittadinanza tutta, questi interventi vengono di fatto imposti e fatti cadere dall’alto da qualcuno che normalmente è la parte finanziariamente più forte. In questo modo è solo il mercato, e non il bene comune, a far decidere l’opportunità o meno di un intervento.

Anche considerando il tema del lavoro questo intervento è critico, perché a fronte di nuove assunzioni non è conosciuto l’impatto che le nuove attività avranno sul tessuto commerciale: di fatto è mancato uno studio approfondito sul commercio, e non si può affermare a priori che questo intervento porti nuovi posti di lavoro o si limiti a spostarli da un’attività cessante (i piccoli esercizi commerciali) verso i nuovi centri strutturati e multinazionali.

Dal punto di vista sociale questi interventi hanno considerato Ponte Carrega e Piazza Adriatico luoghi morti, confondendo i confini delle aree industriali dismesse con il perimetro dell’intero quartiere, che ora rischia di ritrovarsi spaccato da un crocevia di traffico senza aver previsto sufficienti luoghi di aggregazione e socialità (come invece è avvenuto a Fiumara, con almeno un grande parco a fruizione pubblica). Avevamo chiesto una mitigazione dell’impatto e continuiamo a chiederla. L’intervento istituzionale è stato fino ad oggi scarso, deludente, inefficace, nonostante i numerosi incontri con le istituzioni municipali e comunali, quali il vicesindaco e lo stesso sindaco Marco Doria.

A seguito dei lavori di trasformazione del quartiere era prevedibile pensare alla creazione di uno spazio aggregativo e sociale, quale ad esempio, la risistemazione di piazza Adriatico come la Coopsette aveva ipotizzato con il Municipio: quei soldi non ci sono più. Venendo meno questa possibilità avevamo quindi individuato un’area verde (area casetta in salita Migliavacca) dove creare uno spazio pubblico aggregativo su una proprietà che Coopsette avrebbe donato al quartiere, ma a due anni dall’inizio dei lavori e sollecitando continuamente il Comune e il Municipio anche quest’area sembra ormai compromessa.

Oltre a ciò, senza un’area aggregativa e sociale e nonostante le richieste del quartiere, i proponenti chiedevano una variante per raddoppiare i parcheggi di loro pertinenza attraverso la costruzione di un impalcato in struttura di circa 6.600 mq. Il Municipio ha espresso alla unanimità la sua contrarietà alla variante. Dopo la nostra interrogazione in Comune e in Municipio il 7 maggio ci sarà nuovamente un sopralluogo della Commissione Territorio del Comune presso il cantiere.

 

Oggi, la Resistenza

Oggi saranno in tanti, nelle piazze genovesi e nelle piazze italiane che commemoreranno la Resistenza e in tanti parleranno dei partigiani, delle loro imprese e del loro eroismo. Molti si riempiranno la bocca di tante belle parole e di discorsi retorici e magnificenti, incensando se stessi e le proprie parole per dare sacralità a un rito che si ripete ogni anno e che per molti è diventato mera tradizione, un appuntamento per ridare vigore ad uno spirito sopito e standardizzato.

Saranno tanti i discorsi e le parole al vento.

Ma sono in pochi coloro che oggi potrebbero parlare per dare forza alla sacralità della giornata e al ricordo della Resistenza; solo in pochi avrebbero il peso morale di elevare questo giorno da ricorrenza rituale a Viva parola.

Non sono gli “yes man” di partito;

Non sono i faccendieri, i parolieri e le primedonne;

Non sono i collusi, i mafiosi e i portatori di interessi particolari;

Non sono i compagni imprenditori o i compagni costruttori;

Non sono i compagni che sostengono la precarietà o le privatizzazioni;

Non sono coloro che fanno finta di niente, che si girano dall’altra parte e fanno finta che tutto vada bene.

Non possono essere costoro i soggetti che oggi si riempiranno la bocca di “Resistenza e 25 Aprile” perchè incarnano ciò che i Pertini e i partigiani della prima ora cominciarono a combattere con carcere e confino fin dagli anni ’20 con i reati di opinione e poi tanti altri dal 1943 in poi con le armi.

Ieri, questi soggetti sarebbero stati il potere, l’arroganza e il sopruso. Lo “yes man” sarebbe stata una camicia nera, allineata con la maggioranza, come un bravo soldatino.

Oggi, come ieri, Resistenza significa combattere i Fascismi, con le armi della critica e della parola, consapevoli di essere dalla parte giusta e forti del giudizio della Storia.

 

Costruire sul costruito

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Il giudice della Corte Costituzionale Paolo Maddalena sul consumo di suolo in Italia

Avevamo incontrato Paolo Maddalena a Firenze al convegno di presentazione del progetto di legge toscana sulla partecipazione “Regole per il Buon Governo, la riforma della legge regionale toscana sul governo del territorio”.

Qui di seguito riportiamo proprio il riassunto dell’intervento del 20 novembre scorso durante il nostro incontro a Firenze col Giudice Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena:

Molti dei nostri problemi potrebbero essere risolti solo con la applicazione della Costituzione.
La Costituzione ha una disciplina che è stata definita di “dinamismo economico” che si basa sulla redistribuzione della ricchezza e prevede si una proprietà privata ma anche un forte ruolo del pubblico: una democrazia non è salda se uno dei suoi componenti è più ricco dello stato: ecco che il pubblico è quindi un elemento di grande importanza per mantenere la stabilità dello stato democratico: la privatizzazione va perciò combattuta perchè impoverisce il pubblico.
L’art. 42 pone in evidenza l’esistenza di una proprietà privata e di una proprietà collettiva: la distruzione del paesaggio colpisce tutti perchè colpisce il bene comune ed è quindi un danno che si fa alla collettività e pertanto un danno che va perseguito.
Il territorio appartiene a tutti: il privato non ha di per se un diritto di costruire perchè il diritto di costruire non è compreso all’interno del diritto di proprietà. La proprietà privata ha un valore sociale: se un proprietario non utilizza il suo territorio o il suo immobile deve essere tassato dallo stato perchè il privato in questo modo impedisce che un bene collettivo possa essere di beneficio per tutti. Ogni pezzo di terra anche se privato deve avere quindi una funzione sociale: un territorio abbandonato non ha utilità sociale.
L’Italia ha bisogno di una sola grande opera: la sistemazione idrogeologica del paese.
La costituzione ci da i mezzi per intervenire; ora serve la volontà politica.

A riguardo vorremmo consigliarvi la lettura dei seguenti libri:

– Settis,Paesaggio Costituzione Cemento,Torino, 2010 

– Leone, Maddalena, Montanari, Settis La Costituzione incompiuta, Torino, 2013

Pubblichiamo ora qui di seguito l’articolo che approfondisce il tema che era stato affrontato dal giudice durante l’incontro di Firenze e che è comparso sul blog nazionale di Salviamo Il Paesaggio:

http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2014/02/il-consumo-di-suolo-e-la-mistificazione-dello-ius-aedificandi/

Paolo Maddalena, vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale e coautore della Legge Galasso.

Audio

(ascolta la lettura automatica)

Il territorio, alle origini, è sempre appartenuto al popolo a titolo di sovranità; dunque, tra i poteri sovrani del popolo rientra anche la “proprietà collettiva” del territorio.

Per combattere il consumo di suolo è indispensabile eliminare gli equivoci sull’edificabilità e ribadire legislativamente, come suggerì la Corte costituzionale, che lo ius aedificandi non è tra i contenuti della proprietà privata dei suoli, come invece vorrebbe la proposta di legge Realacci.

1. – Il consumo di suolo e le lacune legislative

La cementificazione, l’impermeabilizzazione e l’edificazione hanno stravolto il nostro territorio, esponendolo a frane, smottamenti e distruzioni di ogni tipo. Di fronte ad un simile disastro da più parti si sono levate voci allarmate e sono piovute in Parlamento numerose proposte di legge, che promettono di “limitare” il consumo dei suoli agricoli, ammettendolo soltanto se non sia possibile trovare soluzioni all’interno di aree urbanizzate.

Si parla, ovviamente, di “suolo”, cioè di quella parte della superficie terrestre che è a diretto contatto con l’atmosfera e che, attraverso l’azione combinata di acqua, minerali e batteri, condiziona la vita dell’intero pianeta. Sennonché, dal punto di vista giuridico, non è possibile parlare di “suolo” senza parlare anche di “sottosuolo” e di “soprassuolo”. Infatti, queste tre entità sono tra loro strettamente connesse e costituiscono nel loro insieme una entità complessa, molto spesso presa in considerazione dal diritto, che si chiama “territorio”. Si vuol dire, in altri termini, che “suolo” e “territorio” sono tra loro entità inscindibili, per cui un discorso sul suolo non può prescindere da un discorso sul territorio.

E, a questo proposito, non si può fare a meno di ricordare che il “territorio” è oggi attaccato da tre temibilissimi nemici: la crisi finanziaria, che produce la sua “svendita”, e quindi, anche la svendita dei suoli; la “privatizzazione”, che trasforma la proprietà collettiva del territorio e dei suoli, in proprietà privata, sottraendo risorse a tutti, a vantaggio di pochi; ed infine, la “cementificazione e impermeabilizzazione dei suoli” con gli evidentissimi e gravissimi danni che produce.

Comunque, concentrando l’attenzione sulla tutela di quella parte del territorio definita “suolo”, è da avvertire che effettivamente il discorso deve concentrarsi sulle “cementificazioni e sulle impermeabilizzazioni”, che sono la causa prima del suo “consumo”.

Al riguardo, si deve, tuttavia, rilevare che le proposte che sono state depositate in Parlamento, ed in primis quella dell’on.le Realacci, non tengono presente un dato di fondamentale importanza: il fatto cioè che ormai il costruito prevale sul non costruito e sono stati ampiamente superati, e di molto, tutti i limiti per assicurare la “sostenibilità” ambientale di nuove costruzioni.[1]

Ne consegue che oggi non è più possibile interpretare il problema in termini di “limitazione”, ma è diventato ineluttabile parlare della cosiddetta “opzione zero nel consumo di suolo”. Lo impone, a tacer d’altro, il fatto che è stato turbato in modo gravissimo l’equilibrio idrogeologico del nostro Paese, sicché è assurdo continuare a ragionare come se fossimo agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso, e non oggi, quando si è già distrutto inesorabilmente tutto il territorio.

Si è costruito sui terreni agricoli, sulle aree golenali, sugli argini dei fiumi, sulle pendici dei vulcani, sulle spiagge, ecc. E, di fronte a tale immane disastro non è più immaginabile parlare di consumi ulteriori di terreni agricoli, forestali, o addirittura di orti urbani, ricorrendo al subdolo concetto di “compensazione ambientale”, che non serve ad altro se non a spostare il consumo di suolo da un luogo ad un altro. In parole povere un “artificio” per mettere a tacere, ingannandole, le coscienze dei più attenti ai problemi ambientali. Ma v’è ancora di più. Vi sono proposte, come quella già indicata, che parlano della elargizione, da parte dell’amministrazione pubblica, del ius aedificandi, su terreni agricoli, quasi fosse moneta sonante, per coloro che si impegnano a risanare zone urbanizzate. Siamo arrivati ad uno stato confusionario generale.

Occorre, dunque, rimeditare ab imis il problema e scoprire quali siano, sia pur limitando il discorso all’aspetto puramente giuridico, le cause di questo immane disastro.

Ponendosi in questa prospettiva, salta immediatamente agli occhi che causa principale del disastro è il convincimento, diffusissimo nell’immaginario collettivo, secondo il quale il “terreno” serve soprattutto per edificarvi sopra. In altri termini, nel “contenuto” del diritto di proprietà privata sarebbe incluso il ius aedificandi, il cui esercizio ha bisogno soltanto di un “permesso” dell’autorità comunale, quello che una volta si chiamava “licenza”, ed oggi “permesso di costruire”, e che solo per breve tempo, grazie alla legge n. 10 del 1977, fu chiamata “concessione edilizia”.

In realtà questo presunto “diritto di costruire”, inteso come insito nel diritto di proprietà fondiaria, non è previsto da nessuna norma del codice civile. Un tentativo per dare un riconoscimento legislativo al ius aedificandi fu fatto dall’On.le Maurizio Lupi, il quale, a nome del partito “Forza Italia”, presentò nel 2003 una proposta di riforma del governo del territorio, che, benché approvata dal Senato, fu poi bocciata dalla Camera dei deputati[2].

Né è possibile attribuire il valore di una disposizione di legge alla sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1980, che ha concepito il diritto ad edificare come “insito” nel diritto di proprietà, facendo sì che il DPR 6 giugno 2001, n. 380, introducesse poi la dizione “permesso di costruire”. Infatti, la Corte costituzionale ha il potere di “annullare” le leggi e non quello di “sostituirsi” al legislatore. E’ pertanto estremamente importante che le recenti proposte di legge sul consumo dei suoli facciano chiarezza su questo punto, ponendo in rilievo che il ius aedificandi non rientra tra i contenuti del diritto di proprietà privata.

Ed è da sottolineare che i Comuni di rado hanno agito nell’interesse effettivo delle collettività amministrate, ed a ciò sono stati indotti da riprovevoli leggi statali, che hanno favorito gli interessi dei singoli, spingendo i Comuni a concedere il massimo possibile di “permessi di costruire”. Si tratta, innanzitutto, come puntualmente nota Salvatore Settis[3], del Testo unico per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380, il quale, all’art. 136, comma 2, lett. c), ha abrogato il sano principio della legge Bucalossi (art. 12, della legge n. 10 del 1977), secondo cui “i proventi da oneri di urbanizzazione dovevano essere obbligatoriamente utilizzati dai Comuni per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, il risanamento dei complessi edilizi compresi nei centri storici, le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale”. Di conseguenza, a seguito di tale disposizione legislativa, i Comuni si sono sentiti liberi di impiegare i cosiddetti oneri di urbanizzazione anche per le spese correnti e, essendo queste ultime sempre crescenti, hanno cominciato ad ”allentare la guardia sulle autorizzazioni a costruire, o peggio a stimolare l’invasione del territorio modificando piani regolatori, concedendo eccezioni e deroghe, chiudendo un occhio e più spesso entrambi” , ed il fatto peggiore è stato che, essendo diventati gli oneri di urbanizzazione un introito del quale si aveva bisogno anno per anno, i Comuni hanno “accresciuto il numero delle costruzioni, allentando i controlli, cannibalizzando il territorio”[4].

Né è da dimenticare l’effetto perverso provocato in proposito dall’art. 3, comma 3, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, secondo il quale “sono soppresse le disposizioni normative statali incompatibili con il principio per il quale l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”. Si tratta di una legge palesemente incostituzionale, poiché fonda il suo disposto solo sulle prime cinque parole dell’art. 41 della Costituzione, dimenticando che questo articolo, dopo aver affermato che « l’iniziativa economica privata è libera », prosegue dicendo che essa: «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana ». Dunque una disposizione di legge assurda, che, tuttavia, ha dato maggior forza agli speculatori edilizi nel chiedere alle amministrazioni comunali di far presto a concedere loro i richiesti permessi di costruire.

2. – Il capovolgimento di una diffusa ed erronea convinzione.

E’ da porre in evidenza, a questo punto, che costruire, come sopra si accennava, significa “modificare il territorio” e che, di conseguenza, questo può esser fattosoltanto da chi è il “proprietario” del “territorio” medesimo, considerato, peraltro, nella sua interezza, tenendo conto, cioè, anche del paesaggio, dei beni artistici e storici e degli altri beni costruiti dall’uomo.

Si deve cioè affermare con forza che il cosiddetto ius aedificandi appartiene al popolo, che è proprietario del territorio a titolo originario di sovranità e non al singolo cittadino proprietario di un appezzamento di terreno. E si deve subito avvertire che l’interesse del popolo deve esser fatto valore dal Comune, come ente esponenziale dalla comunità comunale, ma anche dai singoli cittadini, come vedremo in seguito, con l’esperimento dell’azione popolare.

Si oppone a questa indiscutibile verità, come poco sopra si osservava, la cultura borghese e quella ben più invasiva del neoliberismo economico, le quali hanno diffuso l’errato convincimento “dell’assolutezza e della illimitatezza” della proprietà privata, che perciò avrebbe come contenuto anche il diritto di costruire, nonché una prevalenza della “proprietà privata” del singolo, sulla “proprietà collettiva” di tutti sul territorio, con la conseguenza che la “tutela dell’interesse generale” viene vista come una “limitazione” della proprietà privata. E tutto questo a prescindere dalle chiarissime disposizioni della Costituzione, che vengono del tutto ignorate, come se fosse possibile leggere le disposizioni del codice civile indipendentemente dalle norme costituzionali.

E’ indispensabile “capovolgere” questa prospettiva, mettendo a confronto i due citati istituti, confronto che porrà in evidenza la “precedenza storica” della proprietà collettiva del territorio sulla proprietà privata, ed una “prevalenza giuridica” del primo diritto sul secondo.

3. – La precedenza storica della proprietà collettiva su quella privata.

Il punto di partenza di tutto il discorso è che il territorio, alle origini, è sempre appartenuto al popolo a titolo di sovranità. E’ sufficiente pensare come nasce la “Comunità politica”, per rendersene conto. Tra i vari esempi, il più pertinente sembra quello relativo alla nascita della Civitas Quiritium. Quando Romolo, o chi per lui, tracciò il solco dell’Urbs (che non ancora si chiamava Roma, poiché questo nome, dall’etrusco rumen, fu dato per l’appunto dai re etruschi), distinse il terreno su cui doveva nascere la Città dai terreni circostanti e dette luogo a tre fenomeni giuridici concomitanti: la nascita del Populus (nel senso che l’aggregato umano che si stanziava nella Città, diveniva una unità giuridica complessa, nella quale si distingueva il “civis”, il singolo cittadino, come “parte costitutiva” del tutto, ed il Populus, cioè l’intera cittadinanza); la nascita del “territorium” (da terrae torus, letto di terra), sul quale si stanziava il popolo, e infine, la “sovranità”, il potere sommo, riconosciuto al popolo stesso, di porre confini, non solo ai terreni, ma anche ai singoli cittadini, in modo che le loro libertà venissero limitate al fine di assicurare la convivenza civile.

In sostanza vennero in evidenza due concetti chiave: quello di “confine” e quello “della parte e del tutto”, nel senso che la “confinazione” dei terreni e delle libertà individuali fu essenziale per la nascita della Comunità politica, mentre lo stesso concetto di popolo, non si risolse nella concezione individualistica di una sola entità giuridica, ma implicò la rilevanza giuridica, sia del tutto, sia dei singoli cittadini, in quanto parti strutturali dell’insieme costituito dal popolo. Insomma una concezione “collettivistica” e non, come si è a lungo ritenuto, una concezione “individualistica”[5].

In sostanza, quello che è necessario porre in evidenza è che la nascita di una Comunità politica implica che, originariamente, il territorio appartiene al popolo a titolo di sovranità, nel senso che tra i poteri sovrani del popolo rientra anche la “proprietà collettiva” del territorio.

Lo dimostra, a tacer d’altro, che per “cedere” a singoli soggetti parti del territorio è stata sempre ritenuta necessaria un atto solenne la divisio, preceduta da una manifestazione di volontà del titolare della sovranità. La prima “divisio” fu operata, secondo le testimonianze letterarie, dallo stesso Romolo, ma il Niebhur ha ritenuto che si trattasse di Numa Pompilio, il quale, evidentemente dopo una deliberazione dei Patres familiarum, divise il territorio dell’Urbe tra una parte assegnata ai singoli Patres, due iugeri a testa, cioè mezzo ettaro (quanto è appena sufficiente per soddisfare le elementari necessità familiari), ed una parte riservata all’uso comune della cittadinanza, il cosiddetto “ager compascuus”. Da notare che non si trattò affatto della cessione in proprietà privata, poiché sulla parte divisa i singoli assegnatari ebbero un potere indefinito, detto “mancipium”, e non un diritto reale come il diritto di proprietà privata. Ed è ancora da notare che anche le successive assegnazioni ai veterani delle terre conquistate avvenne mediante la solenne cerimonia, di origine etrusca, detta “divisio et adsignatio agrorum”, sempre preceduta da una lex centuraiata o da un plebiscitum, cioè da una manifestazione di volontà del popolo sovrano. D’altro canto, anche in questa seconda ipotesi, trattandosi di res nec mancipi, veniva trasferita soltanto la possessio (da potis sedeo, siedo da signore), cioè una res facti e non un vero e proprio diritto. Per parlare di un vero e proprio diritto reale, corrispondente più o meno alla nostra proprietà privata, fu necessario attendere l’inizio del I secolo a. C., quando, dopo una tormentata evoluzione giurisprudenziale, si cominciò a parlare di ”dominium ex iure Quiritium”, che comunque, fu oggetto di controllo pubblico, e comportò soltanto il ius utendi et fruendi, ma non il ius abutendi, del quale si parlò solo durante il medio evo.

Nel medio evo, peraltro, lo schema rimase lo stesso. Infatti, se si pensa che la sovranità, dal popolo era passata all’Imperatore, si capisce pienamente perché si parlò di un dominium eminens dell’Imperatore e di un dominium utile di chi lavorava la terra. Il territorio, insomma, apparteneva a chi era titolare della sovranità. L’appartenenza del territorio, in altri termini, rientrava nella somma dei poteri sovrani e questa appartenenza continuava ad esistere (Carl Schmitt parla di “superproprietà”) anche se in concreto la proprietà risultava assegnata ad un singolo cittadino.

La rottura dello schema romanistico si è avuta con la restaurazione napoleonica, la quale è stata realizzata in base al principio “Il potere al Governo, la proprietà ai privati”. Si è staccato così il diritto dall’economia e si sono poste le premesse per l’affermarsi delle teorie neoliberiste, che si disinteressano della persona umana e mirano soltanto al “massimo profitto”, dando origine al dannosissimo fenomeno della “finanziarizzazione dei mercati”, alla “svendita del territorio” ed alle perniciose “privatizzazioni”, che tolgono a tutti per dare a pochi.

4. – La prevalenza giuridica della proprietà collettiva su quella privata.

La salvezza sta nell’applicazione della vigente Costituzione repubblicana, la quale ha accolto in pieno l’insegnamento dei giureconsulti romani. La Costituzione, infatti, non solo ha sostituito lo Stato persona di stampo borghese con lo Stato comunità, qual era la Respublica Romanorum, ma ha riportato in primo piano la “proprietà collettiva” del territorio, ponendo in luce che la “proprietà privata” è semplicemente “ceduta” ai singoli con un atto di volontà del popolo sovrano, e cioè mediante legge. Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva su quella privata si accompagna oggi la “prevalenza giuridica” della prima sulla seconda.

Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo cioè che tale diritto è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.

Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.

Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.

Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.

In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[6].

Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata” [7].

Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili”, e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.

E questa parte “ceduta” in proprietà privata, sia ben chiaro, deve comunque perseguire una “funzione sociale”, poiché ciò che conta, prima della tutela individuale, è l’”utilità sociale”, di cui parla l’art. 41 della Costituzione.

Insomma, sia la storia degli istituti giuridici, sia, direttamente, la nostra Costituzione confermano quanto sopra si diceva: si deve parlare di un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi, rinverdite e rafforzate dalle teorie neocapitalistiche, e ritenere che non è il pubblico che “limita” il privato del suo uso del bene comune, ma è il privato che sottrae alla collettività la possibilità di utilizzarlo per il bene comune.

5. – Il ius aedificandi

Se si tiene presente, come sopra si è tentato di dimostrare, che la “proprietà privata” deriva da una “cessione” di parti del territorio a singoli individui da parte del popolo, il quale, non solo ha la “proprietà collettiva” dell’intero territorio, ma conserva, come ricorda Carl Schmitt,[8] anche una “superproprietà” o, se si preferisce un dominium eminens sulle parti “cedute”, diventa davvero inconcepibile ritenere che, oltre al diritto di appartenenza di un appezzamento di terreno, sia stato “ceduto” anche il diritto di “modificare il territorio” nella sua interezza, potere che è ovviamente rimasto nei “poteri sovrani del popolo”.

Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda, mentre, come è noto, lo stesso codice ha cura di precisare che questo diritto deve fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”.

Nel caso poi della costituzione a favore di un terzo da parte del proprietario privato deldiritto di costruire e mantenere su suolo proprio una costruzione (art. 952 del codice civile), è evidente che tale costituzione di un diritto reale limitato è condizionata al riconoscimento da parte dell’Autorità competente, di quel particolare terreno come rientrante in una zona urbanizzata. Si vuol dire che è “l’urbanizzazione” del territorio, è in ultima analisi la “cessione” ai singoli di questo potere rientrante nella proprietà collettiva del territorio stesso, a far nascere in capo ai singoli proprietari di terreni il diritto di costruire. Fuori di questa “cessione”, il proprietario privato non può assolutamente vantare un ius aedificandi come insito nel suo diritto di proprietà.

Ed è per questo che è corretto parlare di “concessione” del diritto di costruire,come prevedeva la legge Bucalosi, n. 10 del 1977, ed è fortemente in contrasto con tutti i principi del nostro ordinamento parlare di “licenza di costruzione”, com’era una volta, o di “permesso di costruire”, com’è oggi.

Come si è sopra chiarito, tutto ciò dipende dal fatto che la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e contiene anche questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutti i consociati.

6. – La dinamica costituzionale per lo sviluppo economico. La partecipazione dei cittadini

Il problema dell’attuazione del ius aedificandi, rende necessario qualche cenno sulle linee direttrici che la nostra Costituzione pone a proposito dello sviluppo economico.

Come è noto, la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.

In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.

Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[9], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[10], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[11], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.

Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.

In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.

Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese. Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.

Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.

Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.

Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle“chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.

Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, chela “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionata alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.

Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.

Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di iscrivere formalmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.

C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione legislativa”, alla “funzione amministrativa”, ed alla “funzione giudiziaria”. Ed è da sottolineare che, la partecipazione alla funzione legislativa e a quella giudiziaria riguarda soltanto un potere di iniziativa o di abrogazione, mentre quella concernente la funzione amministrativa implica un effettivo esercizio della funzione stessa. Infatti, come è noto, la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, ed invece la funzione amministrativa è condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.

E’ noto che la partecipazione alla funzione legislativa si concreta nel referendum abrogativo (art. 75 Cost.) e nella proposta di leggi di iniziativa popolare (art. 71, comma secondo Cost.).

Più complesse sono le disposizioni costituzionali che riguardano l’effettivo esercizio della funzione amministrativa da parte dei cittadini. La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.

Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.

Quanto alla partecipazione alla funzione giudiziaria, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti i consociati. Si tratta di un potere di iniziativa che è insito nel sistema costituzionale, con la conseguenza che una previsione di legge ordinaria in proposito avrebbe valore puramente dichiarativo.

Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione[12] e dalla Corte costituzionale[13] nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. In detta sentenza si legge, infatti, che la “questione” sottoposta all’esame della Corte costituzionale, “ha ad oggetto un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, il diritto di voto, che ha come connotato essenziale il collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme”. Pare proprio che la Corte costituzionale abbia utilizzato il concetto, poco sopra esposto, del rapporto tutto-parte, considerando il cittadino come “parte strutturale” della collettività, per cui la sua azione giudiziaria concerne il proprio interesse individuale e, nel contempo, quello di tutti gli altri consociati. E se è così, si può agevolmente affermare che oggi, ad opera della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzione, l’azione popolare, è diventata una sicura realtà[14].

7. – Cosa fare?

Il discorso fin qui condotto ha spianato la strada per combattere, sul piano giuridico, contro il principale responsabile della cementificazione e della impermeabilizzazione del suolo, il cosiddetto ius edificandi. Dovrebbe esser chiaro, infatti, che non è affatto configurabile un diritto di costruire “insito” nel diritto di proprietà privata, mentre si deve necessariamente affermare che questo potere di trasformazione del territorio costituisce una “potestà” insita nella proprietà collettiva che spetta al popolo sul suo territorio a titolo di sovranità.

Vengono in evidenza, a questo punto, due concetti importanti: la tutela del territorio e la fruizione dello stesso. In sostanza, emerge la necessità di “norme di tutela” e di “norme del governo” del territorio.

Le prime, che sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lett. s), Cost., pongono i “limiti invalicabili” di tutela[15], oltre i quali, superate le soglie della sostenibilità ambientale, si provocano seri danni ambientali; le seconde, che rientrano nella competenza concorrente delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, comma terzo, Cost., pongono la “normativa d’uso” del territorio,sanciscono, cioè, in quali zone del territorio e con quali modalità, è possibile costruire. In questo secondo caso, è bene sottolinearlo, lo Stato ha l’obbligo di stabilire, con una legge quadro, i “principi fondamentali” aventi la funzione di indirizzare o porre dei limiti alle manifestazioni legislative[16] della Regione. E non può sfuggire che l’attuale legge quadro per l’edilizia approvata con DPR n. 380 del 2001 è tutta da rifare.

E’ di questa nuova legge quadro che oggi c’è urgente, indilazionabile bisogno. Infatti, è solo in una legge di tal genere, infatti, è possibile stabilire, nella visione di un quadro generale del problema, norme fondamentali applicabili in tutto il territorio nazionale, concernenti il consumo di suolo agricolo e di verde urbano.

Ed a questo proposito, considerato che il punto dolente è quello del cosiddetto ius aedificandi, causa efficiente di notevolissimi danni al territorio, si potrebbe prevedere che la concessione edilizia possa essere rilasciata solo su terreni esistenti in zona urbanizzata e preventivamente acquisiti al patrimonio comunale, o perché si tratta di terreni o immobili abbandonati, che, come si è visto, sono automaticamente rientrati nel patrimonio della Comunità comunale, o perché, per eccezionali esigenze pubbliche, tali terreni o immobili siano stati preventivamente espropriati prima dell’urbanizzazione ed al costo previsto per i terreni agricoli.

Detta concessione dovrebbe inoltre consistere, non in un’autorizzazione a costruire, ma nella costituzione di un diritto di superficie da concedere a seguito dell’esperimento di una gara ad evidenza pubblica e dietro pagamento di un equo canone annuo rivalutabile secondo le stime di mercato. Si eviterebbe così la piaga delle dannosissime “rendite fondiarie”, causate dalle cosiddette “urbanizzazioni di favore”, che arricchiscono indebitamente pochi speculatori, a danno di tutti, nonché delle frequenti collusioni tra costruttori e amministratori pubblici. D’altro lato si assicurerebbe alle casse comunali un altro introito sicuro, dovendosi, peraltro, anche prevedere che gli oneri di urbanizzazione siano effettivamente destinati alle opere di urbanizzazione, evitando che detti introiti siano utilizzati per le spese correnti, come prevede la citata legge destinati alle spese correnti, come oggi avviene, seguendo le disposizioni del citato art. 136, comma secondo, lett. c) del vigente T.U per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380.

E’ poi tra questi principi fondamentali che andrebbe previsto anche la necessità di istituire una cintura verde intorno alla zona cittadina urbanizzata, nonché la previsione di notevoli Parchi urbani. Indispensabile sarebbe poi prevedere dellenorme penali che considerano delitto punibile con la reclusione da uno a cinque anni, il fatto di chi leda detti principi ed arrechi, comunque, danni ambientali.

La legge quadro di cui si discute dovrebbe ancora prevedere una attenta manutenzione[17] del territorio comunale e, nell’immediato, una grande opera pubblica statale di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico d’Italia.

Non è chi non veda come un’opera pubblica di tal genere possa simultaneamente perseguire due finalità: la ricostituzione del territorio e contribuire efficacemente all’uscita dalla presente cosiddetta crisi economico finanziaria, poiché la distribuzione di risorse finanziarie ad un considerevole numero di lavoratori agirebbe da volano dell’economia e permetterebbe anche di diminuire notevolmente il debito pubblico. E’ da considerare d’altro canto che gli stessi costruttori, se invogliati a concorrere agli appalti per l’esecuzione di una grandiosa opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico, certamente non avrebbero nessuna difficoltà a lavorare per un fine diverso da quello sin qui seguito. Ora la parola passa al Governo, il quale ha l’obbligo inderogabile di convincere l’Europa che è inutile accantonare contabilmente 50 miliardi all’anno per 20 anni, come ci impone il fiscal compact e che sarebbe molto più ragionevole investire dette somme in un’opera che ristabilisca gli equilibri ambientali, senza produrre merci da collocare sul mercato.

 

NOTE:

[1] Sull’argomento vedi: S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento, Torino, 2010.

[2] Sulla ricostruzione del fatti al riguardo, vedi E. Salzano, Memorie di un urbanista, Venezia, 2012., p. 196 ss.

[3] S. Settis, Pesaggio Costituzione Cemento cit., p.17 s.

[4] S. Settis, o. c. , l. c.

[5] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino, 1974.

[6] M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, rist. 1981, p. 47.

[7] Sul collegamento tra “proprietà collettiva “ e “sovranità”, vedi il mio scritto “I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana”, in Giurisprudenza costituzionale, 2011, p.2613 ss., rinvenibile su www.federalismi. It. Tema ripreso, con dovizia di particolari, S. Settis, in Azione popolare, Torino, 2012, p.79.

[8] C. Schmitt, Il nomos della terra, Milano, 1991, p. 17 ss.

[9] Quanto alla tutela del paesaggio, sono fondamentali i volumi di Salvatore Settis: Paesaggio Costituzione Cemento, Torino, 2010 e Azione popolare, Torino, 2012; nonché il completissimo articolo di G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio, in www.giustizia-amministrativa.it, 2005.

[10] Da ultimo, G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro, Torino, 2013.

[11] Quanto alla tutela delle risorse della terra, vedi: G. Di Marzo, Anatomia di una rivoluzione, Roma, 2012; C. Iannello, Il diritto all’acqua, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2012..

[12] A proposito delle sentenze del 2011, relative alle Valli di pesca della laguna veneta.

[13] Corte costituzionale, sentenza n. 1 del 2014.

[14] Fondamentale, al riguardo il citato volume di S. Settis, Azione popolare.

[15] Vedi sentenze della Corte costituzionale a partire dalle sentenze n. 367 e 378 del 2007 in poi.

[16] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, Tomo II, p. 925 s.

[17] E’ da ricordare che 45 senatori e deputati, utilizzando il lavoro degli Uffici tecnici statali, hanno presentato una importante proposta di legge, contenente norme tecniche per una reale manutenzione del suolo.

Tratto da: http://eddyburg.it/

 

 

Gli Amici di Pontecarrega in una tesi di laurea sui percorsi di mediazione comunitaria

L’attività sociale volta a superare il concetto di Periferia e la riscoperta del Bello, unito agli altri temi sociali ed ambientali che contraddistinguono la nostra attività e i nostri scopi statutari, ci ha portato, come avrete visto negli ultimi mesi, a superare i confini del quartiere arrivando ben al di là delle nostre aspettative finanche all’estero. L’attività svolta dalla nostra associazione e i temi generali da noi trattati hanno riscosso interesse e consenso tanto da essere menzionati in una tesi di laurea magistrale in Metodologie Filosofiche (curricilum etico-politico) della Scuola di Scienze Umanistiche della Università degli Studi di Genova ed opera della dott.ssa Maddalena Mari. La tesi di laurea parla delle tecniche di mediazione volte a semplificare i rapporti tra le persone e la comunicazione tra i vari gruppi. Ospitiamo il contributo della dott.ssa Mari scritto appositamente per il nostro sito.

La comunicazione tra gli umani è molto avanzata da punto di vista tecnologico, ma è diventata più difficile  la comunicazione diretta tra le persone.

Si ha bisogno di costruire  ponti tra identità diverse: tra le  persone, tra i gruppi, tra i quartieri, tra i cittadini e le istituzioni. Un metodo per farlo è quello della mediazione, da sempre usata in varie società, da tempi lontanissimi.

Oggi fare “mediazione nella comunità” diventa non solo un modo per recuperare rapporti umani in maniera  che riescano a far superare conflitti e differenze, perché questi si  trasformino in processi di sviluppo positivi, ma anche un modo di fare politica “dal basso”.

Un modo di restituire equità tra le parti in gioco. Anche i cittadini “normali” (la casalinga, l’impiegato, l’artigiano, il commerciante, l’insegnante, il pensionato, anche i bambini quando li si lascia sviluppare il dialogo) possono avere un ruolo e un peso nel quadro generale, a patto di  rispettare la “giustizia procedurale”,. Nelle società  pluralistiche e democratiche giungere ad un accordo sulle questioni di sostanza è molto arduo. Ѐ invece possibile concordare i principii e le regole secondo le quali costruire il nostro dialogo, come  strutturarlo. Le parole, i gesti costruiscono le situazioni.

E’ quanto  accaduto a Ponte Carrega. Cittadini “normali” hanno preso in mano la situazione che stanno vivendo, non accettando di subirla e hanno trasformato un disagio grave, una questione di fondo come la qualità della vita in un quartiere di periferia, soggetto alle alluvioni, in opportunità per informarsi, fare cultura, riscoprire la bellezza, condividere idee con altri cittadini, genovesi – e ora anche Europei – e creare confronto con istituzioni e con realtà economiche molto importanti.

Tesi della dott.ssa Maddalena Mari

Italia, bellezza futuro

La Associazione Amici di PonteCarrega aderisce a “ITALIA, BELLEZZA FUTURO”, l’iniziativa promossa da Legambiente Italia per la “Settimana della bellezza”: http://www.legambiente.it/bellezza. L’iniziativa consiste nella presentazione di un d.d.l. contro il consumo del suolo e in una serie di iniziative concrete sulla bellezza nei quartieri italiani. A questa ultima categoria fa capo l’iniziativa “Mappa Parlante” di Legambiente Genova: siamo felici di essere i primi ad aderire all’iniziativa! Per maggiori informazioni: http://www.mappaparlante.it/

Promemoria settimanale per i soci e attivisti APC:

-lunedì 7 aprile ore 21:00 in sede, riunione con Legambiente Progetto Mappa Parlante
-martedì 8 aprile ore 21:00 alla Gau riunione comitato tram
-mercoledì 9 aprile ore 14:30 (sede da definire) riunione progetto Alluvione.
-mercoledì 9 aprile ore 21:00 in sede, riunione soci e attivisti APC
-domenica 13 aprile, dalle 8:30 in poi proseguono i lavori al truogolo di Salita alla Chiesa di Staglieno: stiamo riscoprendo l’antico acciotolato ottocentesco (venire muniti di un paio di guanti!)

Economia Circolare-seminario La Filiera del bosco e l’agricoltura periurbana

La nostra associazione, da sempre interessata ai temi economico-ambientale ha partecipato al seminario “Filiera del bosco, manutenzione del territorio per la prevenzione del rischio  idrogeologico” tenutosi nella Sala della Giunta Nuova a Palazzo Tursi.

A partire dai primi mesi del 2015 saranno disponibili 314 milioni di euro facenti capo al PSR (Piano di Sviluppo Regionale) 2014-2020. Tra le priorità di questo piano incontriamo l’innovazione; la competitività in agricoltura e nella gestione delle foreste; le filiere agro alimentari; la salvaguardia degli ecosistemi. Nel nuovo psr troviamo tre nuove misure su cui l’Europa e la Liguria vogliono concentrarsi: l’avvio di nuove imprese, la costituzione delle associazioni di produttori e la cooperazione. La cooperazione consente di sostenere l’associazione di filiere, la costituzione di reti, poli e gruppi operativi del PEI (Partenariato Europeo per l’Innovazione) per l’avviamento di progetti pilota, lo sviluppo di nuovi prodotti, la creazione di filiere corte e la messa a punto di strategie locali di sviluppo.

La Liguria propone all’Europa (il psr deve essere approvato dalla Commissione) due tipi di pacchetti: un pacchetto Start Up a sostegno di nuove imprese o di nuove attività all’interno di imprese già esistenti; il sostegno alle competenze e alla formazione; gli investimenti in strutture; il sostegno alla nascita di nuove associazioni di produttori e alla cooperazione di filiere; misure volte a rimettere in moto il mercato fondiario. Il secondo possibile pacchetto riguarda la prevenzione del rischio idrogeologico e prevede il sostegno a nuove imprese o a nuove attività all’interno di imprese già esistenti, la definizione di accordi territoriali di cooperazione tra Comuni, altri enti locali e le imprese agricolo-forestali per la vigilanza e il ripristino; il sostegno all’acquisto di competenze e di formazione; il sostegno agli investimenti.

Il Progetto Sylva Med

Si è poi parlato del progetto Sylva Med di Regione Liguria attraverso le parole della dott.ssa Laura Muraglia, un progetto che coinvolge altri paesi dell’area mediterranea per i servizi e la gestione del bosco . Sono stati fatti esempi di gestione del bosco: utilizzo delle risorse non legnose del bosco (es. tesserina dei funghi); utilizzo sociale della foresta (passeggiata, outdoor e parchi avventura); uso del bosco per migliorare le risorse idriche (sostituzione di essenze con altre volte a migliorare la qualità delle risorse idriche); la gestione del bosco in aree a forte rischio idrogeologico (l’esempio del caso pilota ligure nelle aree delle Case Grilla a Ceranesi, del Rio Freghea a Mignanego e del Rio Riasso a Campomorone) nelle quali le risorse del bosco vengono utilizzate per la progettazione di piccoli impianti a biomasse e volte alla sostituzione progressiva del bosco ceduo. Il progetto è partito con l’obiettivo di creare una domanda e un aumento di domanda attraverso la creazione di un impianto a biomasse all’interno di una scuola. Si è dimostrato un risparmio del 50% rispetto alla centrale a gasolio della stessa scuola. Si sono voluti sottolineare i punti problematici di questo progetto: il grande numero di proprietari di terreni boschivi e la frammentazione fondiaria e il conseguente tempo passato per cercare di contattare e mettere d’accordo tutti i proprietari. Dopo un anno di lavoro preliminare si è riusciti a creare il Pro Consorzio Forestale del Genovesato, capace di gestire le aree, ottenere i cofinaziamenti europei e sperimentare gli schemi di pagamento per i servizi ecosistemici. In definitiva questo progetto coinvolge 22 proprietari, imprese e i 3 comuni (Campomorone, Ceranesi e Mignanego) con l’obiettivo di rendere il bosco una risorsa gestibile e multifunzionale.

I rischi delle centrali a biomasse.

L’intervento di Federico Valerio di Italia Nostra ha voluto portare l’attenzione sull’impatto delle piccole stazioni alimentate a biomasse. sottolineando alcuni aspetti importanti. Una centrale a biomasse è molto meno efficace rispetto a una stazione tradizionale a metano ed è preferibile solo in zone boschive non alimentate a gas e in cui esiste una filiera del bosco che possa rendere autosufficiente il ricorso alle biomasse del bosco: infatti, non avrebbe senso avere una stazione a biomasse che si alimentasse con materiale arrivato da lontano perchè così si creerebbe anche lo svantaggio di dover pagare e bruciare biomasse di atri paesi rendendo non più efficiente e sostenibile questo tipo di produzione di energia. Una stufa a gas infatti produce 0,2 giga joule di PM10 contro i 29 giga joule di una stufa a pellet e i 95 di una stufa tradizionale. Questi calcoli valgono sia per impianti con fattori medi di emissioni minori di 50 MWe che maggiori di 50 MWe. Una centrale da biomasse che produce 1 MWe ha bisogno di 10mila tonnellate di biomasse e pertanto per giustificare l’investimento di una centrale molto costosa è necessario avere la disponibilità di una enorme quantità di legno e biomassa senza dover successivamente rivolgersi ai mercati esteri per l’approvvigionamento. Pertanto, conclude Valerio, l’utilizzo migliore che si ricava dal bosco è quello della cippatura e del compostaggio.

L’agricoltura in aree periurbane

Riccardo Favero di Regione Liguria ha portato all’attenzione molti esempi di agricoltura periurbana e di filiera corta (come da lui ricordato con una felice espressione a KM meno 1) a Genova. Nel 1990 erano stati censiti oltre 1000 capi di bestiame bovino all’interno del comune di Genova. Chiaramente ora sono molto inferiori ma ricordare il censimento del 1990 può essere importante per dimostrare una importante vocazione di imprese agricole periurbane anche nel genovesato: oggi si assiste a fenomeni di ripresa di questo tipo di attività e alla nascita di nuove imprese e consorzi. Tra agriturismi, frantoi, caseifici, apicoltori, produttori agricoli e allevatori si contano oggi circa 1000 imprese agricole. Secondo i dati della Regione le attività sono piccole ma in crescita per merito di una domanda oggi in forte crescita.

Le biomasse cogenerative

L’ultimo intervento è stato di Sonia Sandrei di Enel Green Power che ha parlato della possibilità di implemento delle piccole centrali a biomasse che Enel vuole portare avanti tra il 2014 e il 2015. Si tratta di impianti da 200 o 300 KWe alimentati da filiera corta e dagli avanzi della produzione agricola locale (nel caso della Liguria oltre al legno, le vinacce e la sansa, scarto della produzione dell’industria del vino e dell’olio di oliva). Un impianto da 200 KWe occupa circa 300mq e circa 1000mq per l’area di stoccaggio delle biomasse. Si prospetta quindi un accordo tra mondo dell’agricoltura e quello della produzione di energie per l’utilizzo degli scarti di lavorazione finalizzato alla produzione di energia elettrica e riscaldamento attraverso accordi commerciali o joint venture. Si calcola (fonti Politecnico Milano-Rapporto efficienza energetica del dicembre 2013 e studi OIR 2013-2020) che i benefici netti dello sviluppo delle biomasse sarà di circa 3 miliardi di euro tra il 2013 e il 2020 e consentirà un aumento della manodopera diretta e indiretta per la gestione dei boschi e per la filiera bosco-legno-centrale che dovrà essere fortemente aiutato dall’Unione Europea.

Introduzione al tema dei Beni Comuni: cosa sono? Possibili scenari futuri

Questi appunti sono stati scritti durante il seminario tenuto dal prof. Roberto Louvin dell’Università di Calabria il 1°aprile 2014 presso la sezione di diritto costituzionale del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova dal titolo “La ri emersione dei Beni Comuni nel costituzionalismo contemporaneo”.

I beni comuni sono i beni comuni dell’uomo,indispensabili e necessari per la sopravvivenza del genere umano e generalmente esclusi da un possesso esclusivo di un singolo: possiamo far rientrare nella categoria Beni Comuni la terra, l’acqua, la biodiversità, la scienza e la conoscenza, il paesaggio. Sono beni attorno ai quali ruotano legami di valorizzazione, conservazione (responsabilità per il futuro e le generazioni future) e solidarietà. Il concetto di bene comune è assimilabile ad una istituzione sociale dinamica in cui diversi soggetti e comunità interagiscono e fanno rete nella gestione di questi beni.

A partire dal Medioevo e dal pensiero di Tomaso incomincia a delinearsi la contrapposizione tra beni individuali e beni comuni. Il fenomeno è più diffuso nel nord Europa tanto che l’Inghilterra si dotò di una legislazione a tutela di boschi e foreste con la Charter of Forest già nel 1217. Per tutto il medioevo e fino agli albori della civiltà moderna il bene comune, governato dalle regole consuetudinarie costruitesi nei secoli, avrà il suo periodo d’oro.

Il declino dei Beni Comuni coincide invece con l’avvento dell’età industriale e la definitiva supremazia della Proprietà Privata individualistica di ispirazione lockiana. L’assetto comunitaristico della proprietà incomicia ad essere demolito con le prime costituzioni moderne, a partire dalla Costituzione della Virginia del 1776 e poi con il Code Civil napoleonico del 1804 (che ispira il nostro attuale Codice civile del 1942). Solo con la Costituzione di Weimar negli anni ’20 dello scorso secolo si ricomincerà a dare spazio alla proprietà come interesse collettivo. La nostra Costituzione del 1948, pur ispirandosi alla costituzione di Weimar, manca del riferimento alla proprietà collettiva. L’art. 42 definisce la proprietà come pubblica o privata, tralasciando la proprietà collettiva (tertium non datur!) e tralasciando quindi il tema della “proprietà come funzione sociale accessibile a tutti”. L’art. 43 Cost. da spazio per una lettura elastica del suo dettato e può far intravedere, per gli interpreti più attenti, qualche spiraglio per la rinascita dei beni comuni (Art. 43: A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese,che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale): qui infatti si parla della possibilità di esproprio a beneficio di comunità di lavoratori o di utenza. Tuttavia la riemersione dei beni comuni non avrà gioco facile perchè questo tema sconta un grosso problema da un punto di vista culturale e il problema consiste nel sillogismo “libertà = proprietà”. Questo tipo di discorso andrebbe smascherato una volta per tutte. Già Henry Summer Maine nella seconda metà dell’ottocento si interessò della demitizzazione della visione monistica della proprietà affermando che la proprietà era nata originariamente come proprietà collettiva. Il premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom ha individuato i principi di regolazione per il funzionamento e la gestione comunitaria dei Beni Comuni elencandoli poi nella pubblicazione “Governare i Beni comuni”del 1990: prendendo ad esempio gli esempi di gestione di beni comuni nel mondo la economista morta nel 2012 ha individuato otto regole comuni a tutte queste esperienze e valevoli in generale in cui emerge la reale possibilità di far ri emergere i beni comuni nel mondo contemporaneo. Queste regole definiscono: la chiarezza con cui sono definiti i confini; la proporzionalità costi-benefici; la partecipazione alle decisioni da parte di tutti i soggetti senza che qualcuno possa prevalere sugli altri; la previsione di una attività di monitoraggio della risorsa comune e delle persone che partecipano alla sua gestione; la presenza di sanzioni “a salire”; le regole di risoluzione dei conflitti tra gli attori coinvolti; la garanzia costituzionale che garantisce alle persone il diritto di organizzarsi liberamente e infine la presenza di una pluralità di livelli in cui sono organizzate le modalità di governance della risorsa in comune con l’obiettivo comune di preservare il bene comune per le generazioni future.

In Italia il 10% del territorio è un bene comune della terra, gestito da raggruppamenti di persone o comunità: si tratta di un fenomeno diffuso soprattutto nel nord Italia e più precisamente nell’arco alpino (Valle d’Aosta, Ampezzo, Val di Fiemme, Carso) e che oggi si trova a forte rischio per i tentativi di privatizzazione di questi territori. Mantenere questi terreni come pubblici ha una valenza fondamentale, visti anche i principi elencati dalla Ostrom: il territorio non può essere visto solo nella sua accezione produttiva o remunerativa. Questa “banalizzazione” del concetto di cosa pubblica va respinto con ogni forza per trasmettere alle generazioni future un patrimonio inestimabile. Ogni tentativo di distrarre questo patrimonio dalla disponibilità per il futuro dovrebbe essere attentamente vagliato; sarebbe auspicabile, quindi, come sta succedendo in Sud America, l’introduzione della figura del Difensore delle Generazioni Future, figura a cui spetterebbe l’analisi costi-benefici derivante da operazioni speculative che si vogliano effettuare sui Beni Comuni.

E’ proprio dal Sud America (tralasciando i classici esempi di proprietà collettive di Urss e Repubblica popolare cinese-la proprietà collettiva delle masse lavoratrici) al centro di un interessante processo di costituzionalismo fin dagli anni ’80, che arrivano le esperienze più interessanti per una ri emersione dei ben comuni. Pur trattandosi di costituzioni manifesto e programmatiche, declinate in articoli molto lunghi e spesso non applicati, il Sud America ci offre numerosi spunti partendo dall’esperienza del riconoscimento dei diritti inalienabili delle minoranze e dei nativi: La repubblica dell’Equador, ad esempio, riconosce per la prima volta in Costituzione il valore della biodiversità (art. 57 comma 8 e art. 58) tra i diritti riconosciuti agli indios. Il Brasile, all’art. 231 della Costituzione del 1988 riconosce “la indisponibilità e la inalienabilità delle terre abitate dagli indios”; riconosce inoltre “la nullità di tutti gli atti di vendita o sfruttamento dei terreni la cui proprietà collettiva è garantita in eterno agli indios”. Infine, la Costituzione della Bolivia riconosce all’art. 394.III della Costituzione del 2008 “la proprietà comunitaria o collettiva” descrivendola come “proprietà indivisibile, insequestrabile, imprescrittibile, inalienabile e irreversibile”, rendendo così complementari i diritti collettivi e quelli individuali e rendendo compatibile l’unità territoriale con le identità delle popolazioni.

Tutti i casi riportati descrivono una concezione post-moderna della Proprietà Privata strutturata come gestione concertata di beni e risorse comuni di fruizione collettiva.

Letture consigliate:

-R. Dworkin I diritti presi sul serio, Milano, Il Mulino, 1982.

-Stefano Rodotà Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Bologna, il Mulino, 1981; 1990

-Paolo Grossi Un altro modo di possedere, Milano, Giuffrè,1977

-Christian Felber L’economia del Bene Comune, Tecniche Nuove, 2012

-E. Ostrom (1990), Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge, Cambridge University Press.

In italiano: E. Ostrom Governare i Beni Comuni, Marsilio, Venezia, 2006